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Spostare l’obiettivo da se stessiIl ridimensionamento antropocentrico e il concetto di “limite”, a partire dalla cultura greca a Nietzsche, passando per Copernico e Darwin


L'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci - Credit: Wikipedia
L'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci - Credit: Wikipedia


Nietzsche affermava che i “piccoli uomini” sono il frutto di una cultura mistico-simbolica che li fa somigliare agli dei e sentire al centro dell’Universo. Platone, invece, riteneva che “anche il più piccolo frammento che l’uomo meschino rappresenta ha sempre un intimo rapporto con il cosmo”. L’essere umano, quindi, non è centrale per storia né per natura, ma partecipa al cosmo e ne è generato per la continuazione della vita cosmica.


Questo “decentramento” che caratterizzava la cultura greca, in contrapposizione alla visione antropocentrica che sarebbe emersa in epoche successive, ci permette di accogliere il concetto di “limite” e di finitezza. Tali idee, proprie della grecità, preparano l’uomo ad accettare la morte come parte della vita. L’uomo greco padroneggiava “l’arte di essere mortale”: era infatti chiamato “bròtos” (destinato alla morte) o “tnethos” nelle opere letterarie, in cui spesso il termine “mortale” sostituiva quello di “uomo”. Questi non erano semplici passaggi lessicali, ma riflettevano una consapevolezza profonda, radicata nella quotidianità e nella cultura, di vivere secondo la “giusta misura”. Il concetto di non oltrepassare i propri limiti nasce da una grande consapevolezza di sé, del proprio ruolo nel cosmo e della propria relazione con gli altri, evitando così pericoli quali la vanagloria.


L’uomo “piccolo”, infatti, tende alla vanagloria, a porsi al centro di tutto. Al contrario, il “mortale”, l’uomo greco o colto, è attento a non considerarsi l’unico Sole, ma pronto a riconoscere i propri limiti e il proprio legame con la comunità. Esistono tre grandi “mortificazioni”, se così possiamo chiamarle, che hanno colpito la centralità dell’uomo: teorie che lo ridimensionano al di fuori del suo egocentrismo, spingendolo a riconoscere i propri limiti.


La prima mortificazione deriva dalla teoria darwiniana, secondo cui l’essere umano non è figlio di Dio né creato a sua immagine, ma è il prodotto dell’evoluzione, un discendente dei primati. Questo ridimensionamento rimuove la natura divina dall’uomo, ponendolo in una posizione diversa rispetto a se stesso e all’Universo. La seconda mortificazione è opera di Copernico che, spostando la Terra (e quindi l’umano) dal centro dell’Universo, la inseriva in un sistema di pianeti. Infine, la terza mortificazione deriva da Freud e dalla psicoanalisi: l’uomo non è padrone nemmeno di se stesso, poiché è dominato da pulsioni e desideri che limitano la sua capacità di autodeterminazione. La ragione, tanto celebrata come distintiva dell’essere umano rispetto agli animali, non è “padrona in casa propria”, minando così la sua idea di superiorità sul mondo.


Questo ridimensionamento, tuttavia, è salutare. Invita l’essere umano a confrontarsi con la propria finitezza, a riconoscere il proprio ruolo in relazione agli altri e alla cultura. Un uomo consapevole della propria mortalità, agisce con prudenza e senso della misura rispetto al mondo e alla natura. In un’epoca contemporanea che esalta il consumo e il piacere, negando la morte come concetto prima ancora che come evento biologico, è fondamentale riflettere su questi temi e, tanto, non per pessimismo o nichilismo, ma per accogliere il meglio della produzione intellettuale umana. Utilizzando i principi che ci giungono dalla tradizione greca, possiamo riscoprire valori che ci permettano di uscire dal nostro ego e aspirare a “grandi cose”.




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